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Stefano Rodotà & il Diritto Digitale

Prefazione di Stefano Rodotà al libro, Internet, i nostri diritti. Laterza, Bari 2016

 

 

Da qualche anno si cerca di dare un fondamento solido a quello che viene chiamato costituzionalismo digitale. Una prospettiva, questa, esplicitamente indicata da una iniziativa italiana nel corso del Vertice mondiale sulla società dell’informazione dell’Onu, che si tenne a Tunisi nel 2005. E che ora ha trovato proprio in Italia un significativo compimento, grazie alla Dichiarazione dei diritti in Internet approvata dalla Camera dei deputati.

Questa dichiarazione si differenzia dai quasi cento Internet Bill of Rights che è possibile trovare in rete, e che sono il prodotto del lavoro spontaneo di gruppi, dynamic coalitions, imprese, singoli (il 60% successivi al 2012). È il primo documento elaborato in una sede istituzionale e affidato poi ad una mozione votata all’unanimità dai deputati, dunque a un documento di indirizzo per il governo, che gli fa assumere anche un esplicito valore politico.

È stato così abbandonato un atteggiamento critico o addirittura ostile verso qualsiasi forma di istituzionalizzazione, che sarebbe in contrasto con la natura sostanzialmente libertaria di Internet. Ma questa affermazione è ormai contraddetta dalla realtà . Internet non è un luogo vuoto di regole. Al contrario, è sempre più regolato da Stati invadenti e imprese prepotenti.

Con l’argomento, o il pretesto, della sicurezza gli Stati limitano diritti fondamentali, impongono forme di censura, controllano le persone in modi sempre più diffusi e penetranti. Le imprese esercitano un vero potere normativo, privato e planetario, con il terms of service – le condizioni generali di contratto con le quali, unilateralmente, regolano i loro rapporti con le persone alle quali forniscono beni e servizi tramite Internet.

 

 

 

 

Internet, i nostri diritti
Anna Masera, Guido Scorza
Prefazione Stefano Rodotà
Laterza
Saggi Tascabili
marzo 2016
Pagine: 136
Prezzo: 12 €

 

 

 

 

Siamo di fronte non a un vuoto, bensì a un formidabile pieno di regole. Ma può la democrazia accettare un esercizio del potere normativo nell’infinito universo di Internet senza un quadro definito di principi e diritti? L’argomento libertario deve essere rovesciato. Proprio la giusta pretesa di non essere sottoposti a regole restrittive esige la definizione di principi costituzionali che sono esattamente l’opposto di quel tipo di regole, avendo come fine appunto la garanzia di libertà e diritti.

Né basta ritenere che democraticità e legittimità delle regole possano essere garantite dalla sola partecipazione alla loro definizione di tutti i portatori relativi di interessi, tutti sullo stesso piano. Una dichiarazione dei diritti, allora, consente di sfuggire al rischio di abbandonarsi ad un multitaskholderism senza principi, che crea le premesse per la prevalenza dell’interesse del più forte. Peraltro, i soggetti che con la loro attività unificando il mondo, come i cosiddetti over the top, manifestano in più di un caso interesse per principi comuni che possano rendere meno onerosa l’attività di gestione, sottratta alla variabilità delle regole da paese a paese. Ma proprio questo vantaggio non può non consentire un dominio privato sulla fissazione delle regole comuni.

La Dichiarazione dei diritti di Internet si muove proprio in queste direzioni.

E ha un’altra caratteristica, che la differenzia ulteriormente dagli altri Internet Bill of Rights: non elenca tutti i possibili principi e diritti riferibili a Internet.

Li richiama, ma poi si dedica a quelli specificamente legati al funzionamento di Internet. Diventa così evidente una trama di principi generati proprio dalle dinamiche di Internet, direttamente collegati tra loro, che consente di avere davanti a sé un corpo coerente di norme dal quale diventa poi possibile ricavare regole adeguate alla diversità delle situazioni. La Dichiarazione risponde così all’esigenza di disporre di un sistema fermo nei principi e dotato della flessibilità necessaria per tenere il passo con l’incessante mutamento della dimensione digitale senza bisogno di un continuo inseguimento delle novità attraverso aggiornamenti settoriali delle regole, che rischiano di intervenire con ritardo.

Ma, pur dotata di una forte evidenza politica e istituzionale, la Dichiarazione non ha valore giuridico vincolante. Un’operazione brillante, allora, e tuttavia destinata ad avere un’incidenza limitata?

Il problema esiste, ma la soluzione non può essere cercata solo seguendo le procedure classiche del diritto costituzionale internazionale. Certo esistono già documenti giuridici vincolanti che, in varie forme, si applicano in larghe regioni del mondo o coprono materie particolarmente rilevanti (come la protezione dei dati personali). Tuttavia, questa crescente costituzionalizzazione è frutto di un processo nel quale intervengono diversi fattori. Regole formalizzate, certo, e decisioni delle corti, che tuttavia sono l’esito di un dialogo al quale partecipano tutti coloro i quali elaborano soluzioni, affinano concetti, indicano vie interpretative. Il mondo digitale non ha un centro, ma produce incessantemente materiali che diventano oggetto di una riflessione comune, dalla quale scaturiscano poi indicazioni seguite da legislatori e corti.

Si produce per accumulazione, com’è nella natura partecipativa e dialogica di Internet. Ma è un processo che deve essere tenuto vivo, stimolato, messo nella condizione di sottrarre libertà e diritti delle persone alla pressione convergente di sicurezza e mercato. Per questo vi sono un ruolo e una responsabilità ai quali le istituzioni non possono sottrarsi e di cui, anzi, devono essere protagoniste, perchè i loro interventi possono mutare nel suo insieme il contesto politico e giuridico, così dando un contributo essenziale a questa indispensabile, inedita e infinita costituzionalizzazione.

 

 

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